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Apparato radicale profondo

La rubrica "Le piante pioniere della sicurezza" nasce nel tempo sospeso del primo Lock Down, quando IPSAI si ripensava e ripensava a quella sicurezza messa in pericolo e che a tratti sembrava perduta. Questa rubrica raccoglie alcuni contributi che meditano sulla sicurezza in senso più ampio e filosofico, diventando articoli di letteratura della Cultura della Sicurezza.

5 agosto 2020

Il ruolo di creatività e innovazione

Al di là delle diverse letture della situazione attuale e delle previsioni sui possibili sviluppi di essa, è abbastanza condivisa l’idea che sia inevitabile una discontinuità con il passato, anche se la profondità e pervasività dei cambiamenti non è univocamente percepita. Alcuni esiti sono, dal nostro punto di vista, particolarmente auspicabili. Tra questi la diffusione di modelli virtuosi di relazioni tra i diversi soggetti operanti nelle imprese.
Già negli anni 80 Michel Crozier, sociologo e attento osservatore dell’organizzazione europea, sosteneva l’assoluta centralità del capitale intellettivo e umano per garantire la sopravvivenza e lo sviluppo nell’impresa. Diceva che la risorsa umana è “fondamentale”, “decisiva” “strutturante” e che è intorno a essa che vanno ordinate tutte le altre risorse.
In un momento come questo è essenziale mobilitare le capacità individuali e collettive esistenti per avviare la ripartenza. Creatività e innovazione acquisiscono un ruolo fondamentale ed è l’osservazione che gioca un ruolo decisivo: osservare significa cogliere, vedere, notare, fare propria la realtà circostante. Ed è necessario saper guardare con occhi nuovi, non avere schemi preordinati troppo rigidi. Il vero pericolo è infatti quello di utilizzare mappe obsolete per orientarsi in un territorio che è inevitabilmente cambiato. Cogliere le opportunità è facilitato dall’effettuare le osservazioni da diversi punti di vista. La valorizzazione dei contributi forniti da coloro che osservano consapevolmente i diversi aspetti esercitando ruoli diversi permette di cogliere ciò che non è previsto, dà spazio a salti intuitivi magari precedentemente non sufficientemente percepiti e di utilizzarli strategicamente.
Non dimentichiamo che gli esiti della pandemia si inscrivono in una situazione fortemente dinamica, segnata da grandi innovazioni, tecnologiche e organizzative. Siamo di conseguenza obbligati a confrontarci contemporaneamente con la situazione di exponential innovation trainata dalla quarta rivoluzione industriale e con il  nuovo contesto determinato dal covid.
Nella fase acuta della pandemia l’attenzione si è spostata dalle nuove tecnologie e dalla situazione generale in cui esse si situano, ma non è più differibile una lettura complessiva dell’esistente e una ripresa della riflessione di merito. Le domande non procrastinabili sono innumerevoli. Qui scelgo volutamente un solo tema: quello dello stretto collegamento tra l’uso delle nuove tecnologie e la disintermediazione e  e conseguenze che essa provoca sull’organizzazione della vita privata e lavorativa. Affido questa riflessione alla più ovvia delle correlazioni, la diffusione e il governo dello smartworking in particolare e del lavoro da remoto in genere, sfuggiti durante l’emergenza a una regolamentazione pattizia.
È cambiato il modo di lavorare e di concepire la vita quasi senza che ce ne accorgessimo e la pandemia ha solo reso più evidente l’erosione della cultura che orientava i rapporti sociali, politici, economici e personali. Già prima di essa si faticava a dare schemi di interpretazione e di riferimento per quanto accadeva nella società e nel mondo del lavoro.
Il potere di indirizzamento dei corpi intermedi (partiti, sindacati, chiese) si era appannato e oggi più che mai appare evidente il disorientamento che ciò ha prodotto.
È essenziale dunque individuare un nuovo soggetto adatto a guidare il processo di cambiamento e a orientare il pensiero e i comportamenti diventando quel punto di riferimento che i tradizionali attori sociali non sono più in grado di essere.
Abbiamo già indicato in precedenza le imprese come il soggetto che ha più interesse a farsi carico della formazione. Ora alziamo il tiro e suggeriamo che le imprese potrebbero svolgere un ruolo trainante nella ripresa.
Il contesto italiano permette di ritenere possibile questa evoluzione in quanto esiste un nucleo solido di aziende manifatturiere, agricole e terziarie che hanno riadattato le proprie strategie complessive e rappresentano un blocco solido di economia reale, contrapposto al disgregarsi dell’economia finanziaria.
La tipologia di azienda cui pensiamo è quella della piccola e media impresa, il modello che, come confermano i dati Censis, è ormai da anni il più diffuso in Italia.
Tra esse molte sono fortemente radicate nel territorio su cui operano e da cui traggono valore aggiunto come fattore competitivo e come strumento di sviluppo e benessere  non solo per sé, ma per una pluralità di soggetti. Queste imprese dimostrano di aver individuato modalità di gestione che permettono l’equilibrata composizione di interessi diversi, la capacità di conciliare la produzione di reddito con il rispetto per le persone che in essa operano e per il territorio in cui sono insediate. Imprese economicamente produttive e sane, in cui le persone stanno bene, lavorano in sicurezza, possono essere soddisfatte del proprio lavoro.
Le condizioni di base ci sono, il problema è quello di individuare quali modalità di relazione, quali tipologie di lavoro e quale cultura le aziende potrebbero proporre e soprattutto le ragioni per cui avrebbero interesse a farlo.
Ci rendiamo conto che questa riflessione ci porta a muoverci su un terreno scivoloso, in cui progettualità concreta e visione utopica sono molto vicine, ma ci conforta il fatto che cercare nell’impresa un punto di riferimento per la società non è una cosa inedita: si tratta di una strategia che affonda le proprie radici nelle esperienze che nel passato si sono più volte dimostrate vincenti.
Alla base di scelte di questo tipo non stanno utopie umanitarie, ma un realistico senso dell’opportunità. La logica, come è sempre stato e come deve essere nell’azienda, è quella del profitto.
In questa prospettiva diventano sempre più importanti le risorse umane di qualità e l’impegno di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nella produzione. L’impresa di successo è quella che riesce a mobilitare e orchestrare l’attività delle persone e a valorizzarne l’apporto.
È sulle persone che si costruisce e ricostruisce: sono esse le radici profonde che affondano nel terreno, rendendolo stabile. Sono esse le piante pioniere che permettono di ricominciare.

Renata Borgato

 

Renata Borgato

Renata Borgato

Renata Borgato: "Per quanto mi riguarda, io farò il mio mestiere, che è quello di formatrice, consulente aziendale e scrittrice per lanciare provocazioni e per proporre, anche nel contesto del mondo del lavoro, quelle che Goffman chiamava “danze”. Ma danze nuove. I temi rimangono gli stessi, però possiamo provare a declinarli in un altro modo. Sperando che così i nostri interventi acquistino maggiore efficacia. E che ci permettano di pensare alla felicità sul lavoro non come a un’utopia, ma come a una realistica aspirazione. Il proporre nuovi sguardi per problemi noti è quanto ci proponiamo di fare in questa rubrica".


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Se non ora quando?

La rubrica "Le piante pioniere della sicurezza" nasce nel tempo sospeso del primo Lock Down, quando IPSAI si ripensava e ripensava a quella sicurezza messa in pericolo e che a tratti sembrava perduta. Questa rubrica raccoglie alcuni contributi che meditano sulla sicurezza in senso più ampio e filosofico, diventando articoli di letteratura della Cultura della Sicurezza.

28 luglio 2020

In questi giorni ho ritrovato degli spunti presi durante la lettura di un articolo (di cui purtroppo non ricordo l’autore) che in qualche misura comparava il componimento poetico dei testi classici e in particolare la quarta ecloga di Virgilio dedicata al console Pollione, alla situazione di questo periodo. In questo testo il sommo poeta immagina che sia giunta l’ultima “era” predetta dalla Sibilla Cumana, cioè il momento in cui il tempo si rinnoverà e un bambino (chi?) riporterà gli esseri umani alla felicità dell’età dell’oro. Una rinascita in cui il mondo ne uscirà rinnovato e rinvigorito.
Pollione era console nell’anno 40 a.C. e nulla era effettivamente più desiderabile, visto che Roma usciva (illusoriamente) dal disastro delle guerre civili, per poi ripiombarci poco dopo e per altri nove anni.
Quei momenti furono veramente bui, la morte aleggiava per Roma e il suo popolo aspirava che finisse l’emergenza e si tornasse presto alla nuova vita. Virgilio la ipotizzava come un nuovo tempo, che però in qualche forma rinnovava fatti e personaggi del vecchio.

Adesso quello che noi tutti auspichiamo è che l’illusorietà vissuta da Pollione e poi tradita dai fatti, non si ripresenti da noi nei prossimi mesi, come in una specie di sliding doors. E, ritornando al pensiero virgiliano, se ciò però avvenisse cerchiamo almeno di “recuperare” dal vecchio la memoria degli errori commessi.

La memoria però non è solo l’altro ieri, ha basi lontane e che partono dalla nostra scuola dimenticata.

Brava è stata Renata Borgato a ricordarci in uno sei suoi articoli come il nuovo (obbligato) smart working sia il rinnovato vecchio telelavoro, anche se quest’ultimo, è giusto ricordarlo, ha precisi vincoli spaziali e temporali, che il nuovo non ha. Fatti e personaggi del vecchio, lavoratori e aziende, si sono ripresentati nel nuovo con un’adeguata adattabilità al difficile momento. Renata ha poi evidenziato quanto siamo stati tutti resilienti, termine che Virgilio non avrebbe certo usato, ma è estremamente efficace. Ci riconosce la fatica che tutti noi abbiamo fatto per sopportare il forte carico, fisico ed emotivo della pandemia, senza però spezzarci.

E, come dice ancora Renata, ben venga dunque un nuovo processo negoziale tra i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro per regolamentare i diritti di entrambe le parti in gioco, in un sistema non più misurato sul tempo che passa, ma sulla produttività.

Va detto però che un contratto di lavoro pur se evoluto non sana i limiti che stanno a monte tra le parti coinvolte. Essi sono legati al tema della produttività e anche a quello della cultura, argomenti questi che mi portano a riprendere con qualche numero anche quello che ho citato prima, della scuola dimenticata.

L’Italia risulta all’ultimo posto tra i paesi dell’Ocse per la spesa pubblica destinata all’istruzione, infatti il nostro Paese ne destina, tra tutti i gradi del sistema, solo il 6.9%. La Colombia il 9.8%! All’università nel 2017 sono stai assegnati fondi ridotti del 20% rispetto al 2009.

Essendo ultimi tra i paesi Ocse per gli investimenti sulla scuola, non dobbiamo quindi stupirci e ancor meno ipocritamente rammaricarci, se siamo anche ultimi (dati Ocse) per il grado di istruzione dei giovani e meno giovani. D’altra parte la scuola è retta da precari, così come l’università e la nostra ricerca, quest’ultima finanziata attraverso “spettacoli” televisivi.

Possibile che permanga la sordità di chi ci governa di fronte a un concetto così semplice, che è quello che investire in istruzione e ricerca è, senza dubbio alcuno, l’investimento più redditizio e con maggiore ritorno (ROI) che possiamo immaginarci? Qui recuperiamo la produttività! Sia che si lavori in azienda, sia in smart working.

Chi ci racconta che domani sarà migliore, che tutti noi saremo migliori, che quanto ci si sta preparando a fare ci avvicinerà all’età dell’oro mi sembra viva un’illusione, che mi auguro non sia nefasta come quella vissuta dal povero console Pollione.

Dunque?

Se veramente siamo stati resilienti e siamo diventati un “prodotto” che ha gestito positivamente tutta l’energia negativa che ci ha travolto, ma che alla fine non ci ha spezzato, dobbiamo prepararci allora a contrastare le minacce che il futuro, purtroppo ancora incerto, ci potrebbe presentare.

Come fare? Come reagire?

Da ex siderurgico suggerirei di lavorare sul “prodotto”, e per spiegarmi vorrei farmi aiutare dalla mia materia.

In siderurgia il valore della resilienza è noto da molti decenni. Ponti e navi costruiti all’inizio del secolo scorso e messi in esercizio in aree o mari dove la temperatura poteva scendere molto sotto lo zero, si spezzavano sotto carico come se fossero fatti di vetro, improvvisamente. Le caratteristiche meccaniche misurate a temperatura ambiente crollavano miseramente alle bassissime temperature e tutti i parametri di progetto venivano di colpo vanificati. I valori di resilienza precipitavano, l’acciaio non era più in grado di resistere all’energia delle onde che lo colpiva, i ponti si spezzavano, le navi affondavano.

Ci volle lo studio e la ricerca per uscirne. Si capì che modificando l’analisi chimica e aggiungendo all’acciaio liquido durante la fabbricazione una modestissima percentuale di alluminio, la struttura cristallografica si modificava al meglio e il materiale poteva così conservare le sue caratteristiche fisiche di resilienza, anche a bassissima temperatura.

Non voglio con questo dire che col prodotto umano si debba agire sulla chimica, ma sullo studio e sulla cultura sì! Dobbiamo migliorare la capacità di acquisire nuova conoscenza e competenza, oltre a quello che la scuola nel bene o nel male può dare.

Il come fare, dunque, sta ora alle aziende, perché tutte indistintamente possono usare un formidabile strumento per contribuire in modo estremamente importante al miglioramento della qualità e capacità di tutti i propri collaboratori, manager, impiegati, operai: quello della formazione.

E non parlo solo di quella obbligatoria, che come tale assolve già un compito molto importante che attiene la sicurezza del lavoro, ma soprattutto di quella mirata a far crescere sistematicamente la competenza, la qualità e la capacità personale di ogni persona per renderla in grado di affrontare gli eventi esterni più stressanti, sia del lavoro che della vita.

Sempre più la capacità dell’azienda di rinnovarsi e di adeguarsi velocemente al cambiamento, è direttamente proporzionale all’adattabilità culturale della proprietà, della dirigenza e di tutte le maestranze. Saper cogliere in tempi rapidi le opportunità offerte da una variata domanda del mercato (non solo in momenti di pandemia) è merito di un impegno culturale quotidiano e se si manifesta è indice dell’antifragilità che è entrata a far parte del DNA di tutti noi.

Questo è il nostro alluminio!

Silvano Panza

 

Silvano Panza

Silvano Panza

Presidente del CdA. Esperienza maturata come direttore generale di un’industria siderurgica di acciai speciali.
Esperto di impianti, produzione  e marketing dell’industria metallurgica e siderurgica.
Esperto di gestione dei processi aziendali. Formatore sulla pianificazione dell’organizzazione e sulla misurazione attraverso un calibrato controllo di gestione. Formatore delle risorse coinvolte nei processi aziendali agendo nell’area del parlabile e confrontabile.

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Oltre l’obbligo

La rubrica "Le piante pioniere della sicurezza" nasce nel tempo sospeso del primo Lock Down, quando IPSAI si ripensava e ripensava a quella sicurezza messa in pericolo e che a tratti sembrava perduta. Questa rubrica raccoglie alcuni contributi che meditano sulla sicurezza in senso più ampio e filosofico, diventando articoli di letteratura della Cultura della Sicurezza.

 22 luglio 2020
Dal soddisfacimento dei bisogni a quello dei desideri

Esiste un quadro di obbligazioni e di norme che impongono alcune attività relative alla sicurezza dei dipendenti nei luoghi di lavoro. Attualmente, un gran numero di imprese si attiene a queste prescrizioni e comunque la loro mancata applicazione è sanzionabile.
Nell’attuale contesto produttivo limitarsi a garantire i livelli minimi di sicurezza prescritti dalla legge è però una scelta miope. Farlo poteva bastare in un sistema quantitativo, di produzione di massa-consumo di massa,  in cui la risorsa umana veniva considerata solo dal punto di  vista del numero e della sua adattabilità alla logica di produttività e i dipendenti erano intercambiabili, così come lo erano i clienti.
Oggi però il successo imprenditoriale richiede un impegno diverso e più qualificato da parte dei lavoratori. Quando il rapporto quantità – qualità viene capovolto e la personalizzazione dei prodotti, imposta dalla pressione dei bisogni individualizzati e della domanda sul mercato,  prevale sull’offerta standardizzata, la capacità e la facoltà di scelta dell’uomo produttore e consumatore diventano determinanti.
Di conseguenza non bastano gli investimenti in tecnologie e i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. Sulla crescita dell’azienda incide in larga misura la collaboratività delle persone, come dimostra il fatto che nella presentazione degli interventi di tecnologie 4.0 venga insistentemente posto l’accento sul fattore umano, elemento imprescindibile per la riuscita della loro introduzione.
Per questo è strategicamente importante concentrare l’attenzione sulla risorsa “ persone”. Farlo richiede un salto di paradigma, un cambiamento profondo delle logiche che governano l’organizzazione del lavoro e le relazioni nelle imprese. Occorre un nuovo patto tra impresa e dipendenti. In cambio di un maggior coinvolgimento dei lavoratori nel conseguimento dei risultati, l’azienda deve offrire di più delle condizioni minime di sicurezza e tendere a migliorare la qualità complessiva della vita dei dipendenti nel posto di lavoro.
In questo senso l’azienda deve essere in grado di passare dal soddisfacimento dei bisogni a quello dei desideri e dall’etica all’estetica: “il desiderio riguarda il possibile soddisfacimento e la scarsa frustrazione, mentre il bisogno riguarda la scarsa soddisfazione e la frequente frustrazione. Così l’etica si riferisce ad una modalità di comportamento tendente a prevenire danni già subiti nel passato mediante repressione normativa e minacce per i devianti. Invece l’estetica si riferisce ad una modalità di comportamento tendente a realizzare benessere per il futuro mediante espressione e promesse per gli osservanti. Possiamo definire “traghetto” il tipo di passaggio … dall’etica all’estetica, dal bisogno al desiderio.”
A ciò corrisponde  “un tipo di prevenzione degli infortuni mediante una ri-appropriazione dello spazio vitale da parte dei diretti interessati, mediante … la creazione di un oggetto d’amore e una dilatazione del futuro, promessa speranza ed in definitiva bellezza. Il punto centrale di questo esperimento è lo spirito di gruppo, cioè l’idea di organizzazione come stato d’animo e come promessa di benessere futuro. Il lavoro di gruppo previene gli infortuni ed il meccanismo di azione è molto chiaro. Qui occorre creare organizzazioni estetiche e desideranti, non teorizzare i loro protagonisti solo con punizioni, norme e decreti. Si sa che una punizione ha scarso effetto senza un corrispondente premio. Quindi occorrono gruppi funzionanti come “circoli di sicurezza” e come gruppi di progettazione continua”
Soprattutto nelle piccole e medie imprese  ci sono poche alternative a ciò. Purtroppo questa consapevolezza non è presente ovunque: si crea così una divaricazione netta tra gli stili di gestione delle risorse umane adottati nei diversi luoghi di lavoro. Essi hanno però inevitabili riflessi  sulla capacità competitiva dell’azienda e rischiano di innescare un loop negativo in ragione del quale si rende necessaria una riduzione dei costi per la sopravvivenza che a sua volta genera un progressivo decadimento, sino alla crisi finale.
I lavoratori che si sentono apprezzati e valorizzati sono disponibili a prendersi cura della qualità del proprio lavoro, a impegnarsi per migliorare la propria prestazione.
Di conseguenza, si rende necessario un nuovo esplicito scambio tra le parti per trovare un modo migliore per lavorare e far lavorare. Necessita un’adesione convinta che riduca il distacco tra i valori dichiarati e i valori condivisi  e generi fiducia reciproca.
Essa è fondamentale per modificare la cultura in un contesto in cui si è tradizionalmente abituati a vedere contrapposti gli interessi del lavoratore a quelli dell’imprenditore.
Senza questo cambiamento di prospettiva, i dipendenti si limiteranno a fare quanto prescritto dai mansionari o addirittura meno e la loro scarsa disponibilità avrà inevitabilmente ricadute negative sulla produzione: la qualità deriva dai comportamenti delle persone, non dalle macchine che diventano sempre più rapidamente  obsolete.
Ricercare nuove relazioni, offrire migliori condizioni di lavoro, aumentare il benessere dei lavoratori è dunque un investimento strategico, che si inscrive perfettamente nella logica del profitto. Il  vero elemento di novità è che esso permette uno scambio vincente per tutte le parti in causa.
Se a questo punto ricordiamo quel che scrisse Primo Levi a proposito della felicità che deriva dal fare un “buon lavoro” vediamo che il passaggio  dalla qualificazione dei dipendenti al loro benessere non è arbitrario.

Renata Borgato

 

 

Renata Borgato

Renata Borgato

"Per quanto mi riguarda, io farò il mio mestiere, che è quello di formatrice, consulente aziendale e scrittrice per lanciare provocazioni e per proporre, anche nel contesto del mondo del lavoro, quelle che Goffman chiamava “danze”. Ma danze nuove. I temi rimangono gli stessi, però possiamo provare a declinarli in un altro modo. Sperando che così i nostri interventi acquistino maggiore efficacia. E che ci permettano di pensare alla felicità sul lavoro non come a un’utopia, ma come a una realistica aspirazione. Il proporre nuovi sguardi per problemi noti è quanto ci proponiamo di fare in questa rubrica".

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Cellulari e salute

La rubrica "Le piante pioniere della sicurezza" nasce nel tempo sospeso del primo Lock Down, quando IPSAI si ripensava e ripensava a quella sicurezza messa in pericolo e che a tratti sembrava perduta. Questa rubrica raccoglie alcuni contributi che meditano sulla sicurezza in senso più ampio e filosofico, diventando articoli di letteratura della Cultura della Sicurezza.

15 luglio 2022

Una delle attività che ha occupato una buona fetta del nostro tempo durante il periodo di pandemia ha visto l’intensificazione del nostro uso di tecnologie digitali. La pandemia ci ha costretto a stringere una stretta relazione con il nostro telefono cellulare per lavorare, ma soprattutto per sviluppare attività e relazioni sociali che diversamente non avremmo potuto avere. Videochiamate, messaggi vocali, filmati, messaggi multimediali sono diventati il nostro interfaccia con il resto del mondo, sia che si trattasse di affetti vicini sia che si trattasse di lontane conoscenze professionali.
Al di là delle diverse attività che abbiamo potuto così svolgere, ci siamo chiesti: questi strumenti, cosi apparentemente passivi, come sono fatti? che impatto hanno su di noi? Cosa gli permette di funzionare così? Ci potrebbe essere nel loro uso qualcosa che ci farà del male?

Cellulari e sicurezza

I telefoni cellulari sono dispositivi a radiofrequenza di uso comune. Sotto il profilo della sicurezza, tutti i telefoni cellulari immessi nel mercato europeo devono soddisfare i requisiti e gli standard definiti dalla Direttiva 1999/5/CE, sulle apparecchiature radio e le apparecchiature terminali di telecomunicazione e il reciproco riconoscimento della loro conformità (recepita dal D.lgs. 9 maggio 2001, n.269), e dalla Raccomandazione 1999/519/CE, relativa alla limitazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici.

Cellulari: come funziona una chiamata?

Quando effettuiamo una telefonata, l’antenna del nostro cellulare emette energia durante la ricerca della stazione e nel corso della conversazione solo quando siamo noi a parlare, mentre non viene emessa energia durante la fase di ascolto dell’interlocutore.

Studi scientifici hanno dimostrato che là dove la qualità della copertura delle stazioni è ottimale i telefoni sono in grado di operare alla potenza minima, o quasi. Al contrario una scarsa copertura di rete costringe il telefono a ricercare in continuazione la migliore connessione e ad utilizzare ripetutamente la sua potenza massima.

Cellulari e biofisica

Dal punto di vista biofisico, l’energia radiofrequenza emessa dal telefono cellulare durante le chiamate vocali viene assorbita dalla pelle e dai tessuti immediatamente circostanti all’area di contatto tra il dispositivo e la testa dell’utilizzatore. Questa energia interessa una zona relativamente piccola e non è praticamente più misurabile a distanza di circa 5 cm (sia in larghezza, sia in profondità) dall’antenna che ne costituisce il punto d’origine. (per maggiori approfondimenti si rimanda all’indagine di valutazione dell’esposizione condotta nell’ambito dello studio internazionale Interphone coordinato dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro – IARC: https://www.iarc.fr/wp-content/uploads/2018/07/pr200_E.pdf)

Cellulari e salute

Sebbene i cellulari siano oggetti che rispondono a requisiti di sicurezza normati, ci dobbiamo chiedere se il nostro modo di utilizzarli possa aere effetti negativi sulla nostra salute.

L’OMS ha avviato, nel 1996, il Progetto Internazionale Campi Elettromagnetici. Ad oggi, non vi sono evidenze scientifiche che dimostrino un effetto sanitario avverso causato dall’uso dei telefoni cellulari e in particolare la comparsa di tumori intracranici. Tuttavia, ulteriori ricerche sono in corso per colmare residue lacune nelle conoscenze soprattutto per valutare gli effetti per usi superiori a 15 anni dall’inizio e per esposizioni iniziate durate l’infanzia e l’adolescenza.

Quindi, dobbiamo stare tranquilli del tutto?

Nel caso dei telefoni cellulari, gli studi scientifici hanno dimostrato che, anche nei tessuti più esposti (come la pelle a diretto contatto con il telefono e l’orecchio), l’aumento di temperatura non supera 1 o 2 decimi di grado centigrado neppure nelle condizioni di massima potenza, e le variazioni di temperatura all’interno del cervello sono tanto piccole da risultare praticamente non rilevabili.

Spesso abbiamo letto su articoli divulgativi che vi è correlazione tra uso dei cellulari e tumori intracranici. Ma cosa dimostrano gli studi scientifici oggi?

Una meta-analisi degli studi epidemiologici pubblicati al 2017 condotta dall’Istituto Superiore di Sanità non rileva, nell’insieme, incrementi d’incidenza di tumori intracranici in relazione all’uso prolungato (≥10 anni). Tuttavia rimangono alcune incertezze riguardo a periodi di latenza superiori ai 15 anni, ai tipi più rari di tumore cerebrale e agli effetti dell’inizio dell’uso del cellulare durante l’infanzia.

Quindi, le evidenze scientifiche attualmente disponibili depongono contro l’ipotesi che l’uso dei cellulari comporti un incremento del rischio di tumori intracranici.

Nella presente situazione non del tutto conclusiva sui possibili rischi per la salute, il cittadino può decidere di adottare misure per la riduzione dell’esposizione, sua personale o dei propri familiari, ai campi elettromagnetici emessi dai telefoni cellulari.

Per questo motivo il Ministero della Salute ritiene opportuno elencare le seguenti misure e comportamenti:

  • effettuare telefonate preferibilmente in condizioni di buona ricezione del segnale e in zone ad alta copertura dalle reti di telefonia mobile
  • utilizzare sistemi a “mani libere” (auricolari e sistemi viva-voce)
  • ridurre le telefonate non necessarie
  • utilizzare messaggi di testo.

Scarica l’infografica!

D’altra parte, non sono ancora disponibili osservazioni a distanze superiori a 15-20 anni dall’inizio dell’uso e per esposizioni iniziate durate l’infanzia e l’adolescenza. Pertanto, in linea con quanto raccomandato dall’OMS nel Promemoria 193 di giugno 2011, è opportuno proseguire la sorveglianza epidemiologica dell’andamento dei tumori cerebrali nel tempo e gli studi di coorte prospettici attualmente in corso.

Romina Cassini

Romina Cassini

Romina Cassini

Addetta Servizio Prevenzione e Protezione, Alma Mater-Università di Bologna. Principale mansione: coordinamento sicurezza degli spazi univeristari presso il Policlinico S. Orsola Malpighi.
Formatrice in ambito sicurezza per lavoratori ed equiparati rischio medio e rischio alto presso Alma mater-Università di Bologna.

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Preziose cicatrici

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7 luglio 2020

La dimensione collettiva

Molte aziende hanno erogato durante la chiusura interventi formativi servendosi della modalità da remoto. Non mi interessa in questo momento riaprire l’annosa discussione relativa a efficienza ed efficacia di ciascuna delle modalità di formazione, in assenza o in presenza. Mi affascina ancora meno riprendere le recenti discussioni sulla rispondenza della formazione a distanza ai requisiti dettati dalle norme.

Mi interessa invece chiedermi se le imprese che hanno continuato e continuano con la modalità in remoto o quelle che non hanno ripreso affatto la formazione, non abbiano perso o stiano perdendo un’occasione.

Un’occasione che con la formazione in sé c’entra poco. Ma che riguarda il clima organizzativo, il fare gruppo, la cura delle persone. Tutte cose che, abitualmente, alle imprese interessano molto. Certo più che i singoli argomenti oggetto di formazione.

Le persone, in misura più o meno profonda, sono state tutte toccate dall’emergenza. Alcune sono state colpite direttamente e in modo drammatico, altre sono state risparmiate, ma non per questo sono rimaste esenti dagli effetti e dalla paura.

Il tentativo – individuale e collettivo – di voler rimuovere e lo sforzo di dividere drasticamente il prima dal dopo, il momento del dramma e quello del lieto fine è irrealistico e può indurre a comportamenti irrazionali e pericolosi. Per sè e per gli altri.

Tutti hanno bisogno di ritrovare un equilibrio nella propria vita quotidiana. Le paure frettolosamente rimosse restano latenti e silenziosamente minano il ritorno alla dimensione della normalità, che non si può fondare sul negare, sul sottovalutare o dimenticare, ma che deve partire dalla capacità di ricostruire nuove procedure, di reinventare nuove modalità pubbliche e private, affettive e relazionali.

Queste osservazioni non riguardano, ovviamente chi ha esigenze particolari, chi è stato particolarmente colpito e ha bisogno di trattamenti specialistici, gestiti da professionisti come il trattamento della Sindrome post Traumatica da Stress, ma mi riferisco a tutti coloro, che seppur in misura diversa, debbono confrontarsi con le ripercussioni dell’emergenza e hanno la necessità di lavorare su se stessi per ritrovare un pieno stato di equilibrio, aumentare la consapevolezza delle proprie opportunità e il proprio livello di benessere.

Lo spazio di un corso di formazione in presenza, ricco di contenuti, ma anche con spazi di confronto e socialità, può essere un buon modo di rimettere le persone, abituate all’isolamento, a contatto. A distanza di sicurezza, certamente, ma in grado di guardarsi negli occhi, di ritrovarsi, di esprimersi. In uno spazio meno coercitivo di quello dettato dai ritmi della produzione. Una specie di camera di compensazione, prima di essere restituiti alla quotidianità.

Lo spazio di un corso offre un momento per riconoscere se stessi e rispecchiarsi negli altri. Per permettersi di essere danneggiati e concedersi del tempo per riparare. Individualmente e in gruppo è un buon modo di ricostruire la gruppalità, di darsi un senso, di ripartire.

Poi ci sarà il tempo per ricominciare, ma con più agio, più riserve.

Essere attivi, fisicamente e mentalmente, aiuta a non avvitarsi su se stessi, a distrarsi attraverso attività che richiedano di non concentrarsi troppo sui propri pensieri e sulle proprie paure. È assai utile sostituire il fare al troppo pensare.

In questo periodo ho sentito spesso, anche in un bel webinar dell’Associazione Industriali di Bergamo*, parlare del kintsugi, un’antica arte giapponese che consiste nel riparare con l’oro le rotture delle ceramiche. Il termine significa appunto “preziose cicatrici” e indica che, proprio a causa di un danno, si può diventare più preziosi. Fuor di metafora, ciò allude all’arte di non vergognarsi delle proprie ferite, di assumerle come una parte di sé e della propria esperienza e di acquisire valore attraverso di esse.

Ma per farlo occorre che qualcuno raccolga i cocci. Un’aula di formazione, senza abdicare alla sua attività didattica, può essere uno spazio di confronto tra le persone, di ricostruzione di contatti e valori. Il luogo dove si ripulisce il terreno e si piantano i semi di rinnovate relazioni.

* canale YouTube @Servizi Confindustria Bergamo – https://www.youtube.com/channel/UC_Q38Kp5ybz78MjSl9eZGog 

Renata Borgato

Renata Borgato

Renata Borgato: "Per quanto mi riguarda, io farò il mio mestiere, che è quello di formatrice, consulente aziendale e scrittrice per lanciare provocazioni e per proporre, anche nel contesto del mondo del lavoro, quelle che Goffman chiamava “danze”. Ma danze nuove. I temi rimangono gli stessi, però possiamo provare a declinarli in un altro modo. Sperando che così i nostri interventi acquistino maggiore efficacia. E che ci permettano di pensare alla felicità sul lavoro non come a un’utopia, ma come a una realistica aspirazione. Il proporre nuovi sguardi per problemi noti è quanto ci proponiamo di fare in questa rubrica".

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Analisi di contesto e sistemi di gestione: gli strumenti della “qualità”

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1 luglio 2020

Sistemi di gestione e analisi di contesto

Qualità di prodotto, qualità di servizio, qualità delle relazioni, qualità nelle comunicazioni, qualità della leadership, qualità dell’organizzazione, qualità delle competenze, qualità dei fornitori.

Cos’è la qualità? *

Si potrebbe rispondere banalmente “la qualità del prodotto e del servizio”, e non sarebbe proprio sbagliato, anzi. Un prodotto e un servizio che rispettino i requisiti posti dal cliente e quindi, la soddisfazione del cliente, ne sono la base necessaria.

Ma la qualità si riduce davvero a solo a questo? Per anni, per raggiungere la qualità, le aziende hanno guardato principalmente all’immediato intorno e al proprio interno.

L’andamento dei mercati e le evoluzioni delle normative internazionali, tuttavia, dimostrano che non è più possibile limitarsi a questo. I recenti avvenimenti a livello internazionale e globale lo dimostrano. Mai come ora le aziende sono state messe di fronte a grandi e gravi incertezze che hanno trasformato e stanno trasformando, forse per sempre, il loro modo di lavorare, di rapportarsi con le altre realtà e persone (fisiche e giuridiche), il loro modo di vivere.

Oggi alle imprese è richiesto il requisito della sostenibilità. Sostenibilità oggi significa avere una visione a lungo termine, aprire gli occhi verso il mondo, verso la realtà in cui si svolge la propria attività, identificare quali siano le parti e i partner (stakeholder) con cui ci si rapporta e quali bisogni e aspettative esse abbiano, siano essi clienti o fornitori.

Mai come ora, insomma, saper comprendere e analizzare il proprio contesto, sia interno, che esterno, assume una grande importanza. Una analisi che non può più limitarsi alla mera qualità del prodotto o del servizio, ma che deve necessariamente espandersi a molti altri aspetti di primaria importanza: gli aspetti di mercato, tecnologici, finanziari, normativi e sociali, dai quali derivano per le aziende sì molte opportunità, ma anche molti rischi. L’analisi dei rischi che sottende quella di contesto è infatti l’attività strategica per un buon management.

Si avranno quindi rischi ‘di contesto esterno’, quali quelli connessi all’economia e mercato, alla realtà politica nazionale e internazionale, al cambiamento climatico, alla disponibilità delle materie prime, nonché, come la realtà odierna dimostra, alle emergenze sanitarie, e rischi di ‘contesto interno’, quali quelli connessi alle risorse umane, al know-how, alla competenza, al comportamento in azienda, alla sicurezza sul posto di lavoro,  alle risorse strumentali, alla tutela dei dati personali e del know-how stesso derivanti dalle piattaforme informatiche utilizzate, alla sicurezza dei macchinari e/o sostanze utilizzati nel processo produttivo e, non ultimo, agli impatti ambientali.

Alla luce di tutto questo sorge spontanea una domanda: come è e sarà possibile districarsi in questa realtà complessa? Per far luce in questa fitta nebbia, ecco che vengono in aiuto degli strumenti preziosi: i sistemi di gestione e la formazione.

I sistemi di gestione, anche tramite l’analisi SWOT (ossia dei punti di forza e di debolezza aziendali) e di contesto, ormai cuore pulsante di ogni sistema, consentiranno di identificare quali pericoli (minacce), e relativi rischi, interesseranno l’azienda, e quindi di valutare le necessità in termini di risorse (assets), non solo strumentali (macchine e impianti, piattaforme informatiche, ecc.), ma, soprattutto, umane (competenze).

Per quest’ultime, di fondamentale importanza, si rivela essere lo strumento della formazione-addestramento, tramite il quale si possono costruire e mantenere quelle competenze, quel know-how, che permettono a una azienda di avere una base solida e di essere competitiva sul mercato, e quindi sostenibile, sia oggi che nel futuro.

In conclusione é facile capire come questi due strumenti siano strettamente legati tra loro, al punto di non poter fare a meno l’uno dell’altro, e come essi siano in grado di dare alle aziende quel valore aggiunto, quella famosa ‘qualità’, che é stata origine del discorso.

*Kaoru Ishikawa, Che cos’è la qualità totale?, ed. IlSole24ore

Marco Panza

 

Marco Panza

Marco Panza

Responsabile del sistema di gestione per la qualità di IPSAI dal 2009, mi occupo di predisposizione e mantenimento nel tempo di Sistemi di gestione per la qualità, ambiente e salute e sicurezza per i quali posseggo la qualifica di auditor, Consulenza in materia di Privacy, Modelli organizzativi e gestionali ex D. Lgs. 231/2001, corsi di formazione e questioni legali varie. Ho una laurea magistrale in Giurisprudenza, un Master in Economia e Gestione della piccola e media impresa conseguito presso Isfor 2000, un Titolo di Consulente tecnico ambientale e un Titolo di docente qualificato conseguito presso AIFOS.

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Smart working: essere protagonisti

La rubrica "Le piante pioniere della sicurezza" nasce nel tempo sospeso del primo Lock Down, quando IPSAI si ripensava e ripensava a quella sicurezza messa in pericolo e che a tratti sembrava perduta. Questa rubrica raccoglie alcuni contributi che meditano sulla sicurezza in senso più ampio e filosofico, diventando articoli di letteratura della Cultura della Sicurezza.

24 giugno 2020

Smart working e lockdown

Smart working. Il lockdown ha costretto molte persone a lavorare da casa, con modalità che, proprio per l’eccezionalità della situazione, non avevano potuto essere previste, progettate e programmate preventivamente dall’azienda.

Questo ha creato una condizione, pratica e psicologica, assai diversa da quella di chi già faceva il telelavoro o lo smart working.

Il telelavoro era già utilizzato da tempo. Con questa denominazione, la Commissione Europea nel libro bianco su “Crescita, competitività e occupazione” del 1993 aveva definito la vasta gamma di modi di lavorare che si servono delle telecomunicazioni come mezzo, utilizzato almeno parzialmente all’esterno del tradizionale ambiente di lavoro.

Il telelavoro mantiene due caratteristiche tipiche del lavoro dipendente: l’orario e il luogo di lavoro (casa, ufficio ecc).

L’introduzione dello smart working o lavoro agile è più recente e le sue modalità di esecuzione cambiano completamente le modalità della prestazione lavorativa. Non c’è orario di lavoro e non c’è un luogo di lavoro prescritto.

Proprio per la sua peculiarità lo smart working ha richiesto una regolamentazione a sé stante (d. Lgvo 81, 22 maggio 2017 art. 18 – 24 )

Durante l’emergenza i lavoratori hanno lavorato da casa con modalità non pienamente rispondenti a nessuna delle due tipologie, ma che hanno costituito delle soluzioni ibride, assai variegate. E temporanee.

A monte della loro adozione, non c’è stata scelta, non c’è stata preparazione e il tutto è avvenuto in una situazione di contesto angosciante.

La qualità richiesta a tutti in questo frangente era l’“adattabilità”. O, per usare una parola di moda, la “resilienza” cioè l’abilità intrinseca di mantenere o riguadagnare uno stato dinamicamente stabile che consenta di continuare le proprie attività dopo un grave evento o in presenza di stress continuo.

Forse, peraltro, piuttosto che essere resilienti, cioè in grado di tornare uguali a come si era prima, sarebbe utile essere “antifragili”, neologismo, introdotto da Nassim Taleb, che descrive le caratteristiche di chi non solo è capace di sopportare il caos, ma anche di migliorare sotto lo stress di agenti esterni.

“Qualunque cosa tragga più vantaggi che svantaggi dagli eventi casuali (o da alcuni shock) è antifragile; in caso contrario è fragile”, scrive Taleb.

L’antifragilità dunque va al di là della resilienza e della robustezza. Ciò che è resiliente resiste agli schock, ciò che è fragile è soggetto a distruzione a seguito degli eventi esterni, ciò che è antigfragile trae forza da questi.

Taleb sostiene che il miglior esempio di antifragilità è fornito dall’Idra di Lerna, figura mitologica di un mostro con diverse teste. Quando veniva tagliata una di esse, ne nascevano due.

Essere resilienti, o meglio antifragili, sarà necessario anche dopo il ritorno a una situazione non più di emergenza, in cui le cui regole dovranno essere completamente ridefinite.

In questo periodo, successivo alla fase emergenziale, si registra un processo di modificazione del vissuto – personale e lavorativo – di ciascuno. Tra i cambiamenti che si sono prodotti per molti si inscrive anche quello delle modalità di lavoro. Molti continuano e continueranno a svolgere permanentemente il proprio lavoro da casa.

Ciò implicherà la definizione di regole nuove e certe, che superino l’ambiguità della situazione che si è generata durante il lockdown e che avranno ricadute dirette sulla qualità del lavoro e sul benessere delle lavoratrici e dei lavoratori.

Il livello di benessere derivante dal lavoro da casa sarà più o meno alto per ragioni sia oggettive che soggettive. Influiranno su di esso alcune condizioni immodificabili, ma anche la risposta individuale alla situazione. Per questo vale la pena di cercar di produrre le migliori condizioni possibili intervenendo a modificare gli elementi di disagio.

Ciò richiede che si attui un processo negoziale per definire le nuove condizioni di svolgimento delle proprie attività con il Datore di Lavoro, ma anche con le persone con cui si condividono gli spazi per evitare conflitti di prossimità.

Siamo infatti in un periodo in cui gli stravolgimenti che hanno attraversato la società chiedono di stabilire nuove regole in un contesto inedito governato dell’incertezza.
Le aziende e le organizzazioni che si metteranno in gioco e apriranno il confronto su nuove regole e modalità organizzative per i propri lavoratori saranno le nostre piante pioniere che prepareranno il terreno per il futuro.
Ma per questo occorre ascolto e rispetto. E il riconoscimento reciproco delle diversità, dei vissuti e la condivisione di obiettivi ben definiti tra le parti.

Renata Borgato

 

Renata Borgato

Renata Borgato

Renata Borgato: "Per quanto mi riguarda, io farò il mio mestiere, che è quello di formatrice, consulente aziendale e scrittrice per lanciare provocazioni e per proporre, anche nel contesto del mondo del lavoro, quelle che Goffman chiamava “danze”. Ma danze nuove. I temi rimangono gli stessi, però possiamo provare a declinarli in un altro modo. Sperando che così i nostri interventi acquistino maggiore efficacia. E che ci permettano di pensare alla felicità sul lavoro non come a un’utopia, ma come a una realistica aspirazione. Il proporre nuovi sguardi per problemi noti è quanto ci proponiamo di fare in questa rubrica".

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Quale formazione per nuove competenze

16 giugno 2020

La necessità di nuove competenze

Con una misura inclusa nel decreto Rilancio, il nostro attuale governo istituisce il #fondo nuove competenze (https://www.anpal.gov.it/ ).

In un articolo di opinione comparso l’11 giugno scorso su @il sole24 ore, @francesco seghezzi sottolinea il problema che si è aperto sulla necessità di nuove competenze ( https://www.ilsole24ore.com/art/formazione-misura-d-impresa-e-apprendistato-due-sfide-ripartire-ADMHYwW ).

Ma soprattutto sulla necessità di una ‘reazione aperta’ da parte delle imprese rispetto all’emergenza.

La priorità ora è quella di cambiare approccio, da meramente difensivo a espansivo, avendo come obiettivo quello di rafforzare il capitale umano (cit.).

Noi ci chiediamo. Prima della pandemia sentivamo forte l’esigenza da parte delle imprese di queste nuove competenze, sia specialistiche che trasversali per un mondo in forte mutamento. Ora cosa è cambiato?

Forse la pandemia ci ha messo a nudo con tutti i nostri limiti e i nostri timori, ma al contempo ha rinvigorito e rinforzato la necessità di formare le persone alle competenze di cui l’azienda necessita per la propria sopravvivenza e uno sviluppo sostenibile.

Tutti ormai abbiamo capito che non c’è sostenibilità senza persone. E questa necessità rende la dequalificata offerta del passato oggi impresentabile.

Troppo spesso abbiamo raccolto valutazioni insufficienti da parte delle imprese obbligate a formare i propri apprendisti in percorsi mal progettati, quand’anche completamente improvvisati e lasciati alla mera ‘bontà’ del docente. Docente al quale il mercato riconosceva mediamente 25-30 euro all’ora, lordi, per assumere la docenza di questi corsi. Queste cose non le abbiamo mai dette in virtù di un finto fairplay che, oggi, secondo noi, non ha più motivo di esistere.

Riteniamo invece molto utile aprire un confronto sulla qualità che una formazione efficace deve avere in tutte le sue fasi di progettazione, realizzazione e valutazione. Soprattutto siamo sempre più convinti che rinunciare anche a solo una di esse, non ci consenta di realizzare uno strumento adeguato alle esigenze del nostro tempo.

Un tempo segnato dalle vicende del coronavirus, che tutti ha toccato più o meno pesantemente, e che segnerà la vita collettiva futura, condizionandone gli sviluppi e le modalità di relazione. Competenze specifiche e competenze trasversali saranno infatti da rimodulare attraverso un’elaborazione orientata sì agli obiettivi, ma che non potrà non tenere conto delle dinamiche di gruppi che per un momento, un lungo momento, hanno smarrito certezze individuali e collettive.

Quale organizzazione sarà quella più idonea a ospitare queste nuove competenze, ma soprattutto come deve essere per diventare attrattiva verso chi queste nuove competenze le vuole coltivare? Come si potrà convivere con la variabile dell’incertezza che, oltre ad avere invaso lo spazio privato di ognuno di noi, ha portato prepotentemente il senso della fragilità emotiva all’interno delle imprese e delle organizzazioni?

A queste domande è chiamata a rispondere la formazione dell’oggi e del futuro.

Perché le persone che ci troveremo in aula, in videoconferenza, in training on the job, nei seminari e in tutte le occasioni di formazione, saranno come un mazzo di fiori di campo coloratissimo e un po’ ammaccato, miracolosamente scampato a una tempesta.

Paola Cristiani

Paola Cristiani: è alla direzione di IPSAI srl, rete di consulenze del settore terziario avanzato, specializzata in consulenza aziendale e organizzativa e formazione. è laureata in architettura presso il Politecnico di Milano e da allora non ha mai smesso di pensare in termini di progetto e di studiare. Consigliere per l’Associazione Italiana di Metallurgia (AIM). Le sue attività sono prevalentemente svolte a supporto del management di impresa e dei servizi aziendali di marketing development, ricerca e sviluppo, gestione delle risorse umane, sviluppo di progetti di terziario avanzato, assistenza tecnico-legale e risk-assessment per la gestione dei sistemi e la sostenibilità dell’impresa. 

Ha una curiosità sconfinata verso i motori e le leve che muovono le cose e le persone, di qualsiasi natura essi siano. Le piace sperimentare percorsi nuovi e nuovi modi di pensare e del fare. Pensa che tutto sempre possa cambiare. In meglio. Per tutti.

 

Paola Cristiani

Paola Cristiani

È alla direzione di IPSAI srl, rete di consulenze del settore terziario avanzato, specializzata in consulenza aziendale e organizzativa e formazione. È laureata in architettura presso il Politecnico di Milano e da allora non ha mai smesso di pensare in termini di progetto e di studiare. Consigliere per l’Associazione Italiana di Metallurgia (AIM). Le sue attività sono prevalentemente svolte a supporto del management di impresa e dei servizi aziendali di marketing development, ricerca e sviluppo, gestione delle risorse umane, sviluppo di progetti di terziario avanzato, assistenza tecnico-legale e risk-assessment per la gestione dei sistemi e la sostenibilità dell’impresa.

Ha una curiosità sconfinata verso i motori e le leve che muovono le cose e le persone, di qualsiasi natura essi siano. Le piace sperimentare percorsi nuovi e nuovi modi di pensare e del fare. Pensa che tutto sempre possa cambiare. In meglio. Per tutti.

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Ripartire. Da dove?

La rubrica "Le piante pioniere della sicurezza" nasce nel tempo sospeso del primo Lock Down, quando IPSAI si ripensava e ripensava a quella sicurezza messa in pericolo e che a tratti sembrava perduta. Questa rubrica raccoglie alcuni contributi che meditano sulla sicurezza in senso più ampio e filosofico, diventando articoli di letteratura della Cultura della Sicurezza.

9 giugno 2020

Ripartire dalle persone

Ripartire. Da dove?

Bisogna fare attenzione. Ora più che mai c’è il pericolo che le strategie di breve periodo permettano di eludere le scelte complessive, quelle sulle quali si potrebbe basare “la ripresa”. Per le aziende, gli enti e le organizzazioni in genere è il momento di decidere in che direzione andare, dove allocare prevalentemente le risorse, tante o poche che siano.  Di definire priorità su cui investire per non disperdere energie e fondi.

Il dibattito innescato da De Bortoli e ospitato dal Corriere della Sera ha il pregio di indicare (nuovamente) una direzione precisa: bisogna puntare sulla formazione, scolastica ed extra scolastica. Molteplici sono gli esempi che si potrebbero portare per documentare la dequalificazione dell’offerta formativa, ma non è questo il nostro campo di interesse. Ci sembra invece più interessante riflettere sull’individuazione di elementi correttivi e migliorativi a questo dato di fatto e individuare i soggetti che potrebbero impegnarsi e sono impegnati su questo terreno con un’azione complementare a quella dello Stato.

Nell’ultimo decennio molte imprese hanno realizzato al proprio interno delle vere scuole per la formazione del proprio personale. Le Academy, comunemente dette, a partire dalle agenzie interinali operanti sul territorio nazionale, si sono sempre più diffuse laddove le dimensioni organizzative e le risorse lo permettevano, ma soprattutto laddove era ormai chiaro che la leva che rende vincente un’organizzazione è la preparazione e la motivazione del personale. Ossia delle risorse umane a qualsiasi livello.

La diffusione di centri di formazione gestiti dalle imprese presenta innumerevoli vantaggi. Oltre a rispondere a un concreto bisogno di esse di disporre di lavoratori qualificati e a migliorarne l’immagine, costituisce uno stimolo per il mercato della formazione (competizione di valore) e per lo Stato stesso a rivedere le proprie scelte in materia di formazione e a modificare le proprie politiche.

Che le aziende possano investire nell’istituzione di centri di formazione non è un’idea nuova. A costo di essere scontati ci limiteremo a richiamare la grande lezione di Olivetti, per dimostrare che non si tratta di esperienze non più attuabili, a citare gli investimenti per l’ampliamento della cultura, teorica e pratica, attuati da Cucinelli a Solomeo. Investimenti, appunto, in quanto hanno ricadute sulla produttività aziendale, sulla fidelizzazione dei dipendenti e, non ultimo, si inquadrano in un’ottima politica di marketing.

È idea diffusa che il successo d’impresa dipenda dalla qualità delle risorse umane messe in campo. Non tutte le realtà ne traggono però le conseguenze. Altrettanto raramente si dà seguito alla altrettanto non contestata idea che in un contesto come quello attuale, incerto, volatile, ambiguo e complesso, l’unico strumento veramente essenziale e ovunque utilizzabile sia la capacità di pensare delle persone. Spesso si crea così una divaricazione tra le idee e la loro applicazione nella realtà quotidiana.

Per questo motivo il binomio persone-organizzazione non è da recidere. Non possiamo permetterci una buona qualità delle risorse umane senza una buona organizzazione che le supporti in termini di risorse e relazioni.

Ovviamente non tutte le imprese hanno le dimensioni e le risorse per organizzare una struttura stabile dedicata alla formazione. In molti casi non ne hanno neppure il bisogno. Non sempre occorrono grandi investimenti dedicati. D’altra parte è un fatto che già oggi tutte le imprese fruiscono (o sarebbero tenute a fruire) di un certo numero di ore di formazione per obbligo di legge (vedere la formazione in materia di sicurezza) o contrattuale (es. l’ultimo contratto CCNL del settore meccanica). Sarebbe sufficiente quindi agire consapevolmente sull’esistente per migliorare in termini di efficacia la qualità di quello che già si fa partendo da una progettazione strategicamente mirata agli obiettivi da raggiungere, superando la logica degli interventi episodici e slegati tra loro.

In questo potrebbe essere vincente la presenza sul territorio nazionale di piccoli enti di formazione e società di servizi accreditate, che possono divenire il supporto permanente per tutta la micro piccola e media impresa che non può permettersi una propria Academy interna. Un piccolo ente di formazione può facilmente adattare la propria progettualità e offerta formativa alle esigenze di piccole aziende clienti, magari specializzandosi per settore o per processi particolari.

Non è neppure necessario aumentare il numero di ore dedicate alla formazione, ma basterebbe inserirle in un quadro coerente da declinare con scadenze prefissate. Collegare la formazione agli sviluppi di carriera e di rendere così motivante la partecipazione attiva a essa.

Verifiche in itinere aiuterebbero ad aggiustare il percorso, ancorandolo strettamente ai risultati realmente ottenuti e rendendone percepibile la spendibilità, sia sul piano della crescita personale che aziendale.

A fare la differenza non è l’argomento affrontato quanto il processo di rielaborazione che un intervento formativo ben progettato e ben condotto innesca. Ed è dirimente la coerenza tra i contenuti erogati e la loro applicazione in azienda.

Non basta quindi parlare di progetti. Occorre riflettere anche sulla qualità dei progetti stessi, superando la logica che ha condotto a privilegiare la gradevolezza dei corsi, la spettacolarizzazione, l’idea dei risultati immediati e senza sforzo. E che ha contribuito a sancirne l’irrilevanza.

L’apprendimento è un processo faticoso e, di conseguenza, richiede di stabilire un nuovo patto tra l’azienda e i lavoratori che dia un senso a questa fatica e spinga a sostenerla.

  “Lo studio”, ci ricorda Gramsci “è un mestiere molto faticoso … un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia”.  Ma è anche l’unica strada per crescere come persone e per far crescere l’impresa.

Renata Borgato

 

Renata Borgato

Renata Borgato

Renata Borgato: "Per quanto mi riguarda, io farò il mio mestiere, che è quello di formatrice, consulente aziendale e scrittrice per lanciare provocazioni e per proporre, anche nel contesto del mondo del lavoro, quelle che Goffman chiamava “danze”. Ma danze nuove. I temi rimangono gli stessi, però possiamo provare a declinarli in un altro modo. Sperando che così i nostri interventi acquistino maggiore efficacia. E che ci permettano di pensare alla felicità sul lavoro non come a un’utopia, ma come a una realistica aspirazione. Il proporre nuovi sguardi per problemi noti è quanto ci proponiamo di fare in questa rubrica".

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Il difficile mestiere del virologo e degli addetti alla sicurezza: il paradosso della prevenzione

La rubrica "Le piante pioniere della sicurezza" nasce nel tempo sospeso del primo Lock Down, quando IPSAI si ripensava e ripensava a quella sicurezza messa in pericolo e che a tratti sembrava perduta. Questa rubrica raccoglie alcuni contributi che meditano sulla sicurezza in senso più ampio e filosofico, diventando articoli di letteratura della Cultura della Sicurezza.

3 giugno 2020

Il paradosso della prevenzione

In una recente intervista al Corriere della Sera (24 maggio 2020) il virologo Fabrizio Pregliasco ha fatto alcune considerazioni su quello che lui ha definito: “il paradosso della prevenzione”. L’osservazione è in lui maturata durante il contagio da Covid 19 rilevando le posizioni di due parti in causa: quella di chi, per professione, informa i cittadini dei potenziali rischi (rischio di contagio) e quella di chi evoca un’incomprensibile ostilità verso i servizi strutturati di prevenzione per il contenimento del rischio.

Questo può accadere anche in azienda tra chi si occupa quotidianamente di sicurezza e chi si occupa di produzione o manutenzione o dei correlati servizi. Sia che si tratti di addetto interno, quindi appartenente all’organico aziendale, sia che si tratti di consulente esterno, chi si occupa della sicurezza del lavoro in azienda può essere visto come un menagramo o un visionario capace solo di ricercare i rischi là dove non ci sono realmente. Oppure semplicemente evitato nei processi di sviluppo delle attività aziendali, in quanto portatore di problematiche aggiuntive alla complessità delle azioni decise.

In realtà noi sappiamo che “La famigliarità a un pericolo, al contrario, agisce come un fattore attenuante nella percezione del rischio e induce a sottovalutare la minaccia” (G.Sturloni, La percezione del rischio, Il Tascabile https://www.iltascabile.com/scienze/percezione-rischio-coronavirus/).

Come per i virologi, anche nel mondo del lavoro in azienda, l’evidenziare un rischio reale, ma non avvertito dagli altri può suscitare perplessità, se non fastidio o aperta avversione, in quanto non percepito come componente diretta del lavoro. E anche qui, come nel caso del contagio COVID19, il rischio può tradursi in un danno come un infortunio sul lavoro o una malattia professionale.

Parrebbe quindi di poter affermare che la prevenzione ha più adepti quando fallisce che quando raggiunge i suoi scopi e questo starebbe a riconoscere un insuccesso; ma fortunatamente negli ultimi anni questa affermazione non rappresenta più la realtà.

Se permangono dubbi e incertezze in tal senso, questi nascono forse da un problema di gestione della significatività degli eventi negativi, che non rappresentano il totale degli eventi significativi. Quanto detto, per essere compreso, va infatti supportato evidenziando il fatto che gli infortuni vengono regolarmente contati mentre quelli che si sono evitati invece non si conoscono e sono difficilmente stimabili, se non sistematicamente rilevati come mancati incidenti. Troppo spesso non ci si sofferma a pensare a quel dato mancante e tanto meno ci si domanda grazie a quale miracolosa circostanza degli infortuni si sono evitati. La risposta ci sarebbe ed è fin troppo facile, basta pensarci. E se ci fosse un premio da riconoscere a questa miracolosa circostanza, la medaglia andrebbe proprio all’informazione e alla formazione del personale.

Va anche detto però che il confronto è impari sul piano del bilancio emotivo e cognitivo delle persone. La pandemia infatti agisce su tutti, nessuno escluso; il fenomeno ha dimostrato di non avere confini e di poter colpire trasversalmente chiunque. E per la cura c’è un rapporto di cura- beneficio semplice da comprendere, basta vederlo ed è subito dimostrato.

La percezione del rischio è un’attitudine che va coltivata e non può essere relegata alla predisposizione alla cautela innata in ogni singolo individuo. La cultura della percezione del rischio non è consolidata e ciò pesa sull’efficacia della prevenzione. L’abbiamo anche visto nei giorni scorsi, per ritornare al tema del Covid 19: nelle piazze di alcune città molti cittadini, in attesa dell’immunità di gregge , si sono comportati ancora come un branco di miopi. Nella vita privata come in quella lavorativa, azioni, comportamenti scorretti e non uso regolare dei DPI sono ancora un dato di fatto e tale rimarrà finché non prevarrà, come già detto, la cultura della percezione del rischio.

Le argomentazioni sono le medesime e riconducono al fatto che la percezione del rischio è fondata su un registro culturale che a sua volta si traduce nei comportamenti individuali. La cultura aziendale della sicurezza, quella che viene dai vertici, come quella di una comunità organizzata (lo Stato nelle sue espressioni), influenzano storicamente le percezioni e conseguentemente i comportamenti dei singoli. Le aziende che vivono nel sistema economico di oggi sanno che “La sicurezza sul lavoro non è solo tutela della salute, ma anche cultura della formazione e dell’organizzazione aziendale e pianificazione di strategie e interventi per garantire ambienti di lavoro sani e sicuri” (cit. Accredia, https://www.accredia.it/sicurezza-sul-lavoro-2/) e per questo si dotano di sistemi di gestione che favoriscano la crescita dell’azienda attraverso la misurazione dei processi interni.

La movida nella presunta, ma auspicata post-pandemia, diviene la metafora dell’ostilità alla scienza e ai suoi paradigmi che si muovono tra prove e controprove scientifiche, mentre la stupidità (dal latino stupiditas ossia torpore, intontimento) è assolutista, intrisa di solo certezze. È storia vecchia, d’altronde: già William Shakespeare diceva “Il saggio sa di essere stupido, è lo stupido che crede di essere saggio”.

E così come il COVID 19 non si vede, non dimentichiamo mai che neppure alcuni rischi aziendali si vedono se l’azienda e le sue persone non sono adeguatamente preparate a farlo. Per questo una formazione efficace dentro e fuori le aziende deve insegnare a guardare, per imparare a vedere.

Gianmario Poiatti

 

Gianmario Poiatti

Gianmario Poiatti

CUPG per 31 anni presso l’ATS di Bergamo. Grazie alla sua attività lavorativa ha maturato una solida esperienza nel ruolo di docente. Tecnico della prevenzione con Master in “Esperto in processi di formazione e sviluppo della sicurezza sul lavoro” presso l’Università degli studi di Bergamo Facoltà di Scienze della Formazione.

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