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La rubrica "Le piante pioniere della sicurezza" nasce nel tempo sospeso del primo Lock Down, quando IPSAI si ripensava e ripensava a quella sicurezza messa in pericolo e che a tratti sembrava perduta. Questa rubrica raccoglie alcuni contributi che meditano sulla sicurezza in senso più ampio e filosofico, diventando articoli di letteratura della Cultura della Sicurezza.

26 maggio 2020

Guarda oltre il tuo giardino

Siamo al momento della ripartenza. E quindi a quello della verifica di quanto le persone e le imprese hanno imparato dall’emergenza. Le procedure operative (i così detti protocolli anti-contagio) devono essere stese con stretto riferimento alle attività che vengono svolte e alle caratteristiche dei luoghi di lavoro. Ne consegue che devono essere necessariamente diverse, non trasferibili neppure nello stesso settore di attività. Lo sottolineo perché mi hanno già chiesto: ” hai un protocollo per …? ” aggiungendo subito: ” sai, parto di lì, ma poi lo adatto”. Ecco, forse è meglio di no.

Differenze inevitabili, quindi, ma poche e identiche regole da cui far discendere comportamenti personali e indicazioni operative collettive.

Derivanti da una premessa unica: il virus si contrae attraverso contatto con le persone infette. Non possiamo sapere chi è contagiato e chi no. Nella maggior parte dei casi non lo sa – ancora – neppure la persona stessa.

Di qui le misure prese nel periodo di maggior diffusione del virus: segregazione in casa, finalizzata alla riduzione dei contatti. Meno ce ne sono, meno è la possibilità di contagio. E viceversa. E ancora di qui il distanziamento fisico e l’uso del dispositivo di protezione individuale (la mascherina) , se i contatti dovevano comunque esserci.

Per il resto, poche precauzioni, consistenti essenzialmente in semplici misure igieniche (e di cortesia), in fondo corrispondenti alle precauzioni che ci hanno insegnato da bambini.

Ora si tratta di ridisegnare la nostra vita tenendo conto del fatto che l’incubo non è finito e che impedire che il virus si diffonda di nuovo in modo incontrollato dipende in larga misura da noi.

Alcuni soggetti, ovviamente, hanno più responsabilità di altri. Limitandoci anche solo alle realtà aziendali, i datori di lavoro, gli RSPP, gli RLS, i Medici competenti, giù giù per la catena gerarchica di controllo.

Ma, alla resa dei conti, molto dipenderà anche dai comportamenti individuali e dalla capacità di ciascuno di riflettere sulle implicazioni delle proprie azioni. È il sistema nel suo insieme che deve funzionare. Anche il più piccolo ingranaggio può far arrestare l’intera macchina.

Amplificato, drammatizzato, reso collettivo e ubiquitario, si ripropone il tema della gestione del rischio.

Fino a ora lo abbiamo visto declinato nell’ambiente di lavoro e normato dal d.81/08. E abbiamo dovuto constatare che spesso la percezione di esso era gravemente distorta.

Rischi sottovalutati o sopravvalutati hanno spesso lo stesso effetto: la non presa in carico del problema. Per questo tra i corsi di formazione più utili ho sempre incluso quelli sulla percezione del rischio e sulla consapevolezza situazionale.

Ora, al rientro al lavoro, la logica è la stessa. Sia per chi predispone le procedure, sia per chi tali procedure deve seguire, è necessario pensare prevalentemente alla ragione che sta alla base di esse e alle conseguenze delle eventuali violazioni. Per sé e per gli altri.

Indirettamente ciò conduce a domandarsi

Se la drammaticità della situazione dalla quale forse stiamo uscendo – o forse no – ci ha insegnato qualcosa in termini di responsabilità e di meccanismi “causa- effetto”.

Un’ultima osservazione: il contagio è, oltre che una realtà fisica, una rappresentazione metaforica dell’interdipendenza. I nostri comportamenti producono effetti che ricadono non solo su di noi, ma anche sugli altri.

Per riprendere il tema del giardino, potremmo giocare con la frase di Voltaire: “Il faut cultiver son jardin”.

NOTA: Potremmo usarla per ricordarci che non è possibile prendersi cura di sè, senza pensare agli altri. E viceversa.

SECONDA NOTA: in francese son può significare “proprio” o “di lui/lei”.

Quindi “Il faut cultiver son jardin” può essere tradotto con

“bisogna coltivare il proprio giardino” oppure “bisogna coltivare il giardino di lui o di lei.

Renata Borgato

 

Renata Borgato

Renata Borgato

Renata Borgato: "Per quanto mi riguarda, io farò il mio mestiere, che è quello di formatrice, consulente aziendale e scrittrice per lanciare provocazioni e per proporre, anche nel contesto del mondo del lavoro, quelle che Goffman chiamava “danze”. Ma danze nuove. I temi rimangono gli stessi, però possiamo provare a declinarli in un altro modo. Sperando che così i nostri interventi acquistino maggiore efficacia. E che ci permettano di pensare alla felicità sul lavoro non come a un’utopia, ma come a una realistica aspirazione. Il proporre nuovi sguardi per problemi noti è quanto ci proponiamo di fare in questa rubrica".

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